venerdì 22 aprile 2011

Cibo contaminato nei piatti italiani: ecco cosa arriva dai paesi europei

Additivi e conservanti nei crostacei. Istamina, cadmio, mercurio e anisakis (parassita intestinale presente in numerosi mammiferi marini) nel pesce preparato. Echinococco, bluetongue o febbre catarrale maligna, negli ovini e bovini.
Se state pensando ai prodotti di Cina, Vietnam, Egitto o Indonesia siete fuori strada. Questi sono solo alcuni degli elementi risultati presenti, grazie alle analisi chimiche, batteriolochiche, parassitarie e virali, negli alimenti che arrivano in Italia dai Paesi dell’Unione.
Il viaggio-inchiesta di Panorama.it tra gli alimenti tossici e radioattivi che tentano di raggiungere le tavole degli italiani, non si è fermato sulle banchine dei porti tra container di merci in arrivo da Paesi terzi ma è andato a “ispezionare”, assieme agli esperti dell’UVAC (Uffici Veterinari per gli Adempimenti degli obblighi Comunitari) del Ministero della Salute, anche la merce in entrata dai Paesi della Comunità Europea.
Le carni bovine e quelle ovine il pesce, il latte (e i prodotti derivati) ma anche animali vivi: vengono ispezionati “a campione”. Su 1.058.319 partite di merci importate nel 2008 (+1,6 per cento rispetto al 2007) ne sono state controllate 9.926 (0,94 per cento).
E il 37 per cento delle ispezioni sono state effettuate in laboratorio su molluschi, crostacei, squali, latte, formaggi e carni bovine.
Sotto la lente d’ingrandimento del Ministero della Salute ma soprattutto nel “quaderno rosso” dei respingimenti sono finiti gli alimenti importati da Francia, Germania e Spagna.
L’Italia riceve dai Paesi dell’Unione un volume di merci 13 volte superiore a quelle che arrivano dai Paesi terzi. Tra i maggiori fornitori di alimenti proprio la Francia (25,7 per cento sul totale), Germania(20,5), Olanda(10,7) e Spagna(9,3).
L’UVAC, assieme alle Aziende sanitarie Locali delle aree interessate, ha respinto al mittente o distrutto immediatamente l’1,4 per cento delle merci controllate e risultate pericolose (+0,2 rispetto al 2007) per la salute pubblica.
Il maggior numero di riscontri di laboratorio risultati sfavorevoli sono quelli sul pesce preparato trovato positivo al mercurio. I crostacei, invece, sono risultati ricchi di cadmio mentre sugli ovo-caprini è stata segnalata la presenza di echinococco (l’echinococcosi è una malattia che viene trasmessa all’uomo dagli animali attraverso questo parassita che aggredisce il fegato ma anche milza e polmone).
Molto frequenti anche le analisi positive alla salmonella riscontrate nelle carni sia su quelle già confezionate che su quelle non confezionate di pollame, bovini e suini.
Nel nostro territorio entrano mediamente in dodici mesi, e solo dai Paesi dell’Unione, circa 85 mila tonnellate di carne già preparata su di un totale di 935mila tonnellate. Sempre nei laboratori sono stati scoperti anche casi di “febbre da lingua blu” in alcuni capi di bovini di cui l’UVAC ha dato immediatamente disposizioni per l’abbattimento, in base alla normativa comunitarie.
A dire il vero, l’Italia è l’unico Paese dell’Unione che attraverso l’UVAC, uffcio nato dopo l’abolizione dei controlli alle frontiere tra gli Stati membri della Comunità Europea, controlla e analizza le merci di provenienza comunitaria. Una garanzia per il consumatore finale ma anche un monitoraggio a livello statale sulla genuinità delle merci in entrata.
Panorama.it ha visitato l’UVAC di Livorno, al quinto posto dopo Verona, Milano, Parma e Torino per l’arrivo di partite di merci dall’Unione Europea ma al secondo posto in Italia per il maggior numero di controlli effettuati in proprozione. Nel 2008, in Toscana sono arrivati 85.217 carichi dai Paesi Ue presso le 1.561 ditte registrate e riconosciute dall’Uvac.
Di questi carichi ne sono stati ispezionati 1.127, circa l’1,32 per cento del totale e analizzati in laboratorio il 26,18%. E, come al solito, è dai laboratori che spuntano le notizie più inquietanti sugli alimenti e animali: sui 42 carici risultati irregolari, sono stati trovati container di pesce spada spagnolo al mercurio, granciporri ovvero granchi rossi, provenineti dalla Francia “conditi” con metalli pesanti (come cadio e mercurio) e anche un carico di smerigli della penisola Iberica, “insaporito” sempre con il mercurio.
Non è uscito immune dai controlli neppure il kebab: l’uffico livornese ne ha ispezionato un carico proveniente dalla vicina Germania che è risultato positivo alla salmonella.
Ma il Paese dell’Ue con il maggior numero di irregolarità sia sul prodotto che sulle certificazioni sanitarie (che devono accompagnare obbligatoriamente il carico)? A sorpesa, la Francia.

Un petto di pollo tra la biancheria. Quelle tonnellate di cibo proibito che viaggiano in valigia

Gli alimenti pericolosi viaggiano anche in valigia? Sì, eccome.
Le verdure contaminate o le carni tossiche non arrivano sul nostro territorio solamente all’interno dei container che sbarcano nei porti italiani, come ha dimostrato il viaggio di Panorama.it, ma anche negli scali aeroportuali.
Quelle piccole e apparentemente innocue quantità di cibo nascoste tra slip, camicie e calzini, possono essere la causa di epidemie e infezioni sia per gli esseri umani sia per animali. Un esempio? L’influenza aviaria (che alcuni anni fa faceva davvero paura e oggi è “passata di moda”: all’attenzione di media, esperti e opinione pubblica ormai c’è il Virus A).
I prodotti di origine animale, infatti, sono in grado di trasmettere gli agenti patogeni delle malattie infettive degli animali stessi. Per questo motivo è stata vietata con il Regolamento europeo 745/ 2004, l’importazione di carni da tutti quei Paesi che non appartengono all’Unione e disposti dei controlli a campione da parte di Dogana e Ministero della Salute sulle valigie dei passeggeri in arrivo dalle aree considerate a rischio.
Ma i cittadini d’Europa, in barba ai divieti comunitari a tutela della salute pubblica, continuano a trasportare nei loro bagagli qualsiasi tipo di alimento vietato. E l’Italia è il Paese europeo potenzialmente più esposto al rischio di introduzione clandestina di prodotti alimentari pericolosi: nel 2007 su 1.212 punti d’ingresso (porti e aeroporti) in tutta Europa, era al primo posto con 380 ingressi.
Nonostante questo dato apparentemente preoccupante le Dogane più indaffarate a sequestrare e distruggere alimenti tossici non sono quelle italiane ma quelle inglesi, spagnole e tedesche. Nei bagagli dei passeggeri che qui atterrano si trova carne, latte, pesce, uova, formaggi e “specialità” tipiche del Paese di provenienza.
Tra i viaggiatori più indisciplinati quelli d’origine asiatica, nordafricana ed est europea
. Al top della “black list”: Cina, Turchia, Russia, Egitto, Ucraina e Thailandia.
Nel 2005 su 73.400 bagagli sequestrati in tutti gli scali europei, sono state ritrovate e distrutte oltre 144 tonnellate di carne e 66 tonnellate di latte e formaggi considerati pericolosi. Nei dodici mesi successivi, i controlli alle frontiere effettuati dal personale (grazie al fiuto sopraffino delle unità cinofile) su ben 111 mila valigie hanno registrato un incremento considerevole sia sulle carni importate (256 tonnellate) ma soprattutto sul latte (246 tonnellate). Nel 2007, invece, pur essendo sempre molto alto il numero delle merci sequestrate (367 tonnellate) si è verificata una diminuzione nel trasporto clandestino di alimenti.
Panorama.it è andata a vedere che cosa accade nell’aeroporto toscano di Pisa. I numeri non sono certamente quelli imponenti di un grande scalo portuale (Pisa è indubbiamente importante per i collegamenti intercontinentali ma ha dimensioni ridotte) ma considerando le dimensioni medie di un bagaglio, i risultati sono comunque significativi.
Nel 2006 nell’ aeroporto Galileo Galilei, la Dogana con la collaborazione del PIF, gli ispettori del Posto d’Ispezione Frontaliera del Ministero della Salute, hanno sequestrato 136 bagagli e distrutto 7 quintali di alimenti illegali.
Quest’ultimo dato è cresciuto sensibilmente già nel 2007 con 890 chilogrammi di prodotti sequestrati, ed è schizzato al di sopra della tonnellata di merce distrutta tra gennaio e dicembre dello scorso anno.
La provenienza dei viaggiatori “pizzicati” conferma le analisi e i dati riscontrati a livello comunitario: cinesi ed albanesi. Nei loro bagagli sono stati trovati petti di pollo, carne di altri volatili (spesso già in decomposizione per il lungo viaggio) latte, varie tipologie di formaggi e lingue di anatra. Proprio quest’ultime sono tra le specialità cinesi più sequestrate nello scalo pisano. Un fenomeno che si spiega per la vicinanza della comunità cinese di Prato, la più numerosa d’Italia dopo quella di Milano, dove la lingua d’anatra viene affumicata e utilizzata per realizzare piatti tipici della Regione cinese del Fujian.
“Non si devono sottovalutare i pericoli che possono derivare dall’importazione illegale di alimenti infetti anche se si tratta di piccole quantità di cibo” spiega Grazia Tasselli, dirigente del Posto Ispezione Frontaliera di Livorno e Pisa. “La carne e il latte non controllati e quindi non autorizzati all’ingresso sui territori comunitari possono veicolare malattie pericolose sia per gli uomini che per gli animali. Per questo motivo, nonostante si siano spenti ormai da molti mesi i riflettori mediatici sull’influenza aviaria, i controlli alle frontiere per evitare il propagarsi del virus sono ancora attivi“.
Quindi, nessun souvenir culinario è ammesso dalle Dogane aeroportuali? No, qualche alimento può essere portato in valigia. La rigidissima normativa europea lascia spazio a poche eccezioni, consentendo il trasporto di piccole quantità di cibo per uso personale solo da nove Paesi: Andorra, Svizzera, San Marino, Croazia, Groenlandia, Islanda , Norvegia, Isole Faeroer e Liechtenstien.
Per le restanti regioni mondiali, vale una regola “non scritta”: le prelibatezze locali vanno consumate sul posto. Anche perché, secondo molti, si gustano di più…
(Fine terza puntata, qui la prima e qui la seconda)

Non aprite quei container. Pieni di tartufi: Made in China e radioattivi

Dopo due giorni trascorsi sulle banchine del porto di Livorno, tra un container di carne suina della Cina in decomposizione, pesci e molluschi tossici arrivati dal Vietnam e una montagna di totani al cadmio spediti dall’Indonesia, non è poi così difficile credere a quegli addetti ai lavori che dichiarano di essere diventati vegetariani. Niente più carne, niente più pesce. Se, ed è vero, il 75 per cento dei controlli risultati sfavorevoli alle scrupolose analisi che gli uffici del Ministero della Salute effettuano quotidianamente sulle partite di alimenti che arrivano in Italia da Paesi terzi, rilevano contaminazioni da metalli pesanti: cadmio, mercurio e piombo.
Purtroppo, dal viaggio di Panorama.it tra i container che approdano a Livorno, non giungono notizie rassicuranti neppure sulle spedizioni di vegetali. Anzi.
Tra patate putrefatte arrivate dal Ghana e maggiorana con salmonella proveniente dall’Egitto, ecco spuntare un container carico di tartufi neri radioattivi: sedici tonnellate.
Una “bomba” dal valore commerciale di oltre 7,2 milioni di euro. Tanto avrebbero fruttato i tuberi sul mercato, se gli ispettori dell’USMAF non li avessero fermati prima, nell’area doganale, e rispediti nel Paese d’origine: la Cina.
Altrimenti, quelle prelibatezze radioattive sarebbero sicuramente finite sulle tavole degli italiani.
Il tartufo nero scorzone sul mercato italiano viene acquistato per 250/300 euro al chilogrammo ma in alcuni casi può arrivare persino a 500 euro. Niente a che vedere con i prezzi di quello “bianco” (ancor più ricercato), il cui valore al Kg raggiunge senza problemi i 2.500 euro. E quello Made in China quanto costa ? Non più di 20/ 25 euro al chilo.
Fosse “andata in porto” l’operazione, chi fosse riuscito a commercializzare i tuberi, avrebbe speso circa 400 mila euro, a fronte di un guadagno finale di 6,8 milioni di euro. Intossicazione compresa.
Ulteriore prova che il lavoro degli uffici PIF e USMAF del Ministero della Salute sulle banchine dei porti italinai è fondamentale perché non arrivino sulle nostre tavole cibi contaminati o radioattivi: è il primo e importantissimo filtro sui prodotti provenienti dalle  zone extra Ue.
Cristiano Savini, titolare dell’omonima ditta specilizzata nella raccolta diretta dei tartufi nelle Colline Samminiatesi (San Miniato, in quel di Pisa, è per antonomasia la Città del Tartufo bianco) denuncia:  “In questo settore occorrono controlli più severi, considerando i costi del tartufo, per garantire al consumatore un prodotto sano e autentico”.
E poi rincara la dose: “Tocca all’Associazione tartufai italiani chiedere oltre a controlli più severi sulle aziende che trattano il prodotto,  anche un disciplinare a livello europeo a tutela del tartufo nero e bianco”.
E invece, chiosa amareggiato Savini, (che nel 2007 trovò il “tartufo bianco del secolo”, il più grande degli ultimi cinquanta anni, un chilo e 497 grammi): “I tartufi cinesi continuano ad  arrivare in Italia a prezzi stracciati attraverso la Germania“. Mettendo così a rischio la raccolta dell’area delle Colline Samminiatesi (che comprendono anche parte delle province di Firenze e Siena), dalle quali proviene il 30 per cento dell’intera produzione di tartufi italiani.
Ma se non tutti “consumano” tartufo,  quasi tutti portano in tavola pesche, fragole, asparagi e pistacchi.  E anche per questi prodotti, il rigoroso controllo dell’Usmaf impedisce che nei nostri piatti ne arrivino non solo di contaminati ma anche tutti quelli che, all’importazione, giungono privi della documentazione sanitaria idonea.
Insomma,  la frutta potrebbe essere anche buona ma in Italia non entra e viene puntualmente rispedita nei Paesi d’origine.
Ancor più timori, ed è comprensibile, provoca: “La merce non dichiarata, che quindi non è sottoposta a nessun controllo, che entra clandestinamente sul nostro territorio fino a raggiungere le nostre tavole” specificano i responsabili PIF e USMAF di Livorno. Che, per questo tipo di controlli, si avvalgono della stretta collaborazione dei carabinieri del Nas, dell’Agenzia delle Dogane e della Guardia di Finanza“.
(Fine seconda puntata, qui la prima)

Livorno: in arrivo bastimenti carichi di molluschi tossici e mandorle concerogene

Curiosare all’interno dei container di alimenti che arrivano e stazionano nei porti italiani non è un lavoro per deboli di stomaco. O per chi darebbe torto al ministro Rotondi sulla pausa pranzo “rito da abolire”. Garantito.
E non solo per il cattivo odore della carne o della verdura che spesso arriva sulle banchine completamente ammuffita, o addirittura marcia, ma soprattutto per  quei prodotti tossici e radioattivi provenienti dai Paesi non appartenenti alla Comunità Europea: molluschi, pistacchi, gamberi, formaggi e persino tartufi.
Panorama.it ha fatto un viaggio all’interno del porto di Livorno assieme agli ispettori del Ministero della Salute, alla ricerca di tutti quegli alimenti pericolosi che ogni giorno tentano di varcare la frontiera per finire nei nostri piatti. O nelle cambuse delle navi da crociera.
I risultati sono sconcertanti sia in termini numerici (tonnellate respinte o sequestrate considerando le dimensioni del porto labronico) sia per le destinazioni ultime dei prodotti pericolosi.
Infatti, in vetta ai sequestri effettuati in questi undici mesi del 2009 dal PIF, Posto d’Ispezione Frontaliera, di Livorno ci sono gli alimenti congelati destinati ai croceristi.
Cozze, vongole, gamberetti, polpi ma soprattutto ostriche
che per il loro vero o presunto potere afrodisiaco, non mancano mai nei banchetti allestiti all’interno dei lussuosi saloni. Peccato, però, che quelle “intercettate” nello scalo toscano arrivassero dalla Cina. Congelati e impanati i molluschi sono stati importati dall’oriente da un’azienda statunitense che rifornisce alcune delle compagnie di navigazione che fanno scalo anche nei porti italiani.
Diciannove le tonnellate di pesce e mitili rispediti al mittente perché considerati dalla rigorosa normativa europea, altamente tossici. Secondo le disposizioni sanitarie europee, questi prodotti, non possono neppure toccare i territori dei Paesi appartenenti e quindi neppure transitarvi.  Ovviamente,  è doveroro precisare che questi controlli sulla merce non vengono effettuati se la compagnia di navigazione decide di effettuare le provviste di bordo in un altro porto non Ue.
Sempre destinato ad arricchire i piatti e le pietanze dei croceristi anche un carico di chiocciole provenienti dall’Indonesia (prive di una qualsiasi certificazione sanitaria), formaggi Usa (idem) e svariati chilogrammi di cosce di rana made in China.
Il PIF è un ufficio periferico del Ministero, sconosciuto alla maggior parte dei cittadini, che effettua quotidianamente controlli veterinari su prodotti di origine animale o su animali vivi provenienti da Paesi terzi e diretti al mercato comunitario oppure verso altri Paesi che non appartengono all’Unione.
Grazie a queste verifiche, sono state bloccate lo scorso marzo, anche 20 tonnellate di surimi scaduto, pietanza di origine giapponese a base di polpa di merluzzo, importato dalla Cina e destinato ai ristoranti italiani che servono pesce crudo. Stop anche per 44,9 tonnellate di polpi e totani (congelati) al cadmio, provenienti dall’India e dall’Argentina.
Secondo gli ispettori del Ministero, PIF e USMAF (Uffici sanità marittima aerea e di Frontiera) il 75 per cento dei controlli risultati sfavorevoli sulle partite di alimenti che arrivano da Paesi terzi hanno rilevato contaminazioni chimiche, in particolare cadmio e piombo, il 20 per cento batteriologiche e il restante contaminazioni fisiche, esempio radiottività.
Ingresso vietato anche alla pelle di pesce e alle gelatine destinate all’industria alimentare per la fabbricazione della cosidetta ‘colla di pesce’ utilizzata sia nei dolci che nelle caramelle: 76,1  le tonnellete provenienti dal Cile e Honduras.
Poi, 24 tonnellate di pesce spada dal Vietnam (cadmio), poco meno di 100 tonnellate di gamberi dall’Ecuador, Malesia Thailandia e India (presenza di nitrofurani, mercurio o sostanze inibenti) e 26 tonnellate di lievito essiccato brasiliano destinato all’alimentazione dei bovini.
Ma non è finita. Ogni mese, solo dal porto di Livorno, vengono rispedite al mittente (perché non superano i controlli dell’Usmaf) migliaia di tonnellate (interi container) di pistacchi provenienti dall’Iran, mandorle sgusciate e pinoli in arrivo dagli States: cancerogeni. Dalle analisi effettuate dagli ispettori ministeriali risulta una presenza, di molto superiore a quella consentita dalla legge, di aflatossina, sostanza pericolosa per la salute. E poi, non sono sostanze chimiche ma i batteri della salmonella a contaminare quintali e quintali di farina di cocco disidratata, asparagi e pomodori pelati. Esame batteriologico non superato neppure per salse piccanti e spezie arrivate dal Perù. E già ritornate oltreoceano.
Insomma, carne, pesce, frutta e condimenti vari: le contaminazioni chimiche o batteriologiche sembrano non risparmiare nessun alimento.
Alla battuta di Panorama.it: “Non ci rimane che bere l’acqua”, il dirigente dell’ufficio livornese dell’Usmaf ci stampa in faccia una fragorosa risata.  E a ragione.
Solo poche settimane fa, i suoi ispettori hanno rispedito negli Usa, 17 tonnellate di acqua:
minerale o gassata, ma con aggiunta di zucchero, altri dolcificanti e aromatizzanti. Bottiglie non destinate alla vendita ma agli assaggi e degustazione  presso gli stand delle fiere e manifestazioni  dedicate al fitness e alla bellezza. Bibite che per fortuna nessuno ha avuto modo di assaggiare perché sprovviste di certificazione sanitaria che ne garantisse la genuinità. Dietrofront.
Ma se lo sguardo varca i confini del porto labronico ecco spuntare altre contaminazioni ancor più preoccupanti segnalate negli altri scali italiani, tali da trasformare lo stupore in sconforto. Il 23 aprile scorso, ad esempio, è stato rispedito in Corea un carico di alghe, solitamente servite arrosto con pietanze a base di pesce crudo, contaminate con l’arsenico.
Qualche settimana prima, invece, è toccato ad un carico di crackers arrivati dalla Cina attraverso l’Olanda, tra i cui ingredienti compariva anche la melamina (sostanza che ha causato la morte di molti bambini cinesi). E poi ancora: cereali per la colazione e salmone.
Se con queste segnalazioni si pensava di aver toccato il fondo, ci siamo dovuti ricredere quanto ci siamo trovati di fronte ad un container carico di tartufi… (fine prima puntata)

Staminali: così abbiamo smascherato i ladri di speranza

Ci hanno promesso che si sarebbero presi cura di nostro cugino Andrea, malato di distrofia muscolare e condannato alla sedia a rotelle. Che nostra sorella Ilenia sarebbe guarita dalla depressione. Che zio Claudio, 72enne affetto da Alzheimer, avrebbe ricominciato a spegnere il gas e a chiudere la porta di casa.
Sarebbe bastato portarli in Ucraina, Svizzera, Thailandia o Cina e sottoporli a qualche iniezione di cellule staminali. Prelevate da cordoni ombelicali, midollo osseo di adulti, feti umani o persino da montoni e agnelli. E staccando assegni che oscillano da 7.500 a 36 mila euro. Somme importanti, certo, ma non eccessive per chi, come chi scrive, pagherebbe qualsiasi cifra pur di vedere i suoi cari tornare a camminare, sorridere o pensare lucidamente.
Per fortuna Andrea, Ilenia e zio Claudio non esistono. Esistono, invece, le “cliniche della speranza” che con l’aiuto delle staminali promettono di sconfiggere dall’epilessia alla calvizie, dal Parkinson allo stress, dalla sclerosi multipla all’impotenza sessuale.
Poco importa che i successi di queste cellule, in campo clinico, non siano ancora dimostrati. “Perché intorno a quelle che per ora sono solo ipotesi già prospera un mercato ricchissimo per pazienti disperati” avverte George Daley, presidente dell’International stemcell society, la società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali.
Come è accaduto alla Stamina Foundation di Torino, dove Davide Vannoni, professore di psicologia, vendeva per 50 mila euro cure di questo tipo in Italia e all’estero. Oggi è nel mirino del pm torinese Raffaele Guariniello, che ha chiesto l’iscrizione al registro degli indagati per Vannoni e altre otto persone con l’accusa di associazione a delinquere per violazione delle regole sulla sperimentazione clinica.
Panorama ha cercato di capire chi sono e come operano questi mercanti della speranza, restando in contatto con loro per oltre due mesi. Punto di partenza sono state le linee guida elaborate nel 2008 dalla stessa International stemcell society per mettere in guardia i pazienti, e la lista nera stilata a ottobre del 2009 dall’Università statunitense di Stanford. Che ha messo all’indice 31 strutture, dal Brasile alla Russia, passando per Messico e Filippine, accusate di offrire terapie a base di cellule staminali senza supporto scientifico (qui l’elenco).
Punto di arrivo è stata la scoperta di promesse di cura in molti casi vicine al raggiro, in altri più simili a mezze verità, in altri ancora ai limiti dell’inverosimile. È così che i drammi di Andrea, Ilenia e Claudio, con profili clinici fasulli ma confezionati allo scopo da veri medici, sono stati sottoposti a quattro di queste strutture. Tutte hanno promesso che si sarebbero dedicate con cura ai “parenti” sofferenti. Bastava pagare.
HEALTH CENTER CLINIQUE LÉMANA - SVIZZERA
Destinazione Montreux, Svizzera. Con una telecamera nascosta nella borsa, siamo diretti all’Health center clinique Lémana.
Sul sito si magnifica la terapia Cellvital: iniezioni di cellule staminali fetali animali, in grado, dicono, di curare dal calo di energie alla depressione, dall’abbassamento delle difese immunitarie all’artrosi, fino all’impotenza maschile. Dopo i 35 anni la terapia si dimostra anche un ottimo anti age, meglio se ripetuta periodicamente. “È al di fuori di ogni logica scientifica” commenta esterrefatto Giuliano Grazzini, direttore generale del Centro nazionale sangue. “Iniettare cellule di un’altra specie nell’uomo non ha alcuna base scientifica e può comportare il rischio di reazioni immunologiche, di intolleranza da tossicità. È un’ipotesi delirante”.
Via email chiediamo aiuto per la nostra immaginaria sorella Ilenia, 30 anni. Abbandonata dal suo fidanzato dopo dieci anni, è ostaggio di una brutta forma depressiva con tendenze suicide. Dorme solo con massicce dosi di Lexotan. È in cura da uno psichiatra, non migliora. La mano tesa di Lémana arriva in due giorni. Ci viene chiesto di compilare un modulo, dove ancora prima di specificare i dati clinici di Ilenia dobbiamo scegliere il suo “programma di rivitalizzazione“: tre o cinque giorni. L’opuscolo specifica che la terapia è identica, ma la seconda opzione le consentirebbe di smaltire meglio il fuso orario (dall’Italia?) dedicandosi a “scoprire la magnifica riviera valdese”. Per l’alloggio, si va dalla camera singola alla doppia (con o senza vista lago), per finire con la suite. Optiamo per la doppia vista lago, così magari Ilenia si deprime meno.
Ci viene chiesto anche se gradiamo una stanza per fumatori (in una clinica?) e se avremo bisogno di una limousine, ma decliniamo le offerte. Nessun problema per il pagamento: si accettano contanti, bonifici e carte di credito. Con un acconto di 2 mila euro. Giriamo pagina. Un questionario si informa su sintomi fisici e psicologici, vaccinazioni, malattie, eventuali trattamenti cellulari già subiti da Ilenia. Compiliamo e spediamo tutto via email. Il giorno dopo veniamo ricontattati. Al telefono l’unica dottoressa della clinica non parla italiano.
Ma quel che dice in francese basta a rassicurarci: “Non posso garantirvi che Ilenia guarirà completamente, ma parallelamente alle altre cure la terapia cellulare può aiutare a diluire e forse azzerare il trattamento medico“. Ottimo. Fissiamo un appuntamento. “Siamo al Royal Plaza di Montreux, quarto piano”. Proprio così: un hotel. Nella hall, specchi e stucchi. La sede della clinica è la stanza 411. Moquette profumata color cipria, ambiente rilassante. Sulla sinistra un lettino e una lampada per la pulizia del viso.
Sembra più un centro estetico che un’oasi di speranza per depressi cronici. Dopo essersi informata sulle condizioni di Ilenia, la dottoressa arriva al dunque: “Noi iniettiamo cellule provenienti da feti di origine animale, trattate in laboratorio” spiega. “Proteine ricche di oligominerali e vitamine“. Rabbrividiamo e chiediamo quali sono gli animali utilizzati. “Montone e agnello“. Pare siano i meglio compatibili. Superato il ribrezzo iniziale, il resto è facile.
Si tratterà solo di rimanere in clinica, o meglio in hotel, il tempo necessario a ricevere quattro iniezioni intramuscolari di cellule e riposare. Secondo la dottoressa, le nuove cellule riattivano l’organismo, stimolando corpo e spirito. “Ma perché funzioni è importante che la paziente sia ricettiva, desideri il beneficio della terapia”. Insomma, se nostra sorella non si risolleverà sarà perché non era abbastanza convinta. Ci informiamo sui costi. Una telefonata e arriva Laurent: completo blu, voce squillante, apre un volantino con i prezzi. Forfait di tre giorni: 6.550 euro a persona. Se sono cinque, si sale a 7.550.
A parte c’è il soggiorno: la camera doppia vista lago costa 310 euro al giorno. Per la pensione completa bisogna aggiungere 95 euro. Totale: 7.765 euro per tre giorni, 9.575 per cinque. Niente male per un po’ di cellule di montone e agnello in giro per il corpo.
XCELL- GERMANIA
Cambiamo direzione e decidiamo di mettere il naso nell’unica clinica bocciata da Stanford che ha sede in un paese dell’Unione Europea: Xcell, Germania. Il sito italiano di questa clinica (privata) con sedi a Colonia e a Düsseldorf parla di scientificità e serietà. “Dal 2007″ si legge sulla home page “più di 1.600 pazienti affetti dalle patologie più diverse si sono sottoposti alla nostra sicura terapia”.
Peccato che dei risultati non ci sia traccia su alcuna rivista scientifica. Fra le malattie curate compaiono anche quelle neurodegenerative. Ci basta recuperare i dati fasulli di zio Claudio, 72 anni, farlo ammalare di Parkinson e compilare un modulo online per ricevere via email una risposta in meno di 24 ore.
La dottoressa Dominique Hossner nel suo italiano maccheronico spiega che la struttura tedesca adotta “standard clinici e di laboratorio regolamentati dalla legge tedesca in materia di interventi medici”. Precisa che con le staminali adulte autologhe “non c’è rigetto o contaminazione con virus estranei”.
E meno male. Poi ci invita a ricontattarla per una visita gratuita, dopo si deciderà il resto del percorso. Questa volta non richiameremo: abbiamo già capito di essere entrati in un tunnel di superficialità e approssimazione.
Perché basta un’altra rapida ricerca su internet per scoprire che il testo della email è identico a quello spedito negli ultimi due anni a decine di altri potenziali pazienti. Nonostante questo, la vicinanza e i costi di trattamento ridotti rispetto a quelli proposti da altre strutture (da 7.500 a 26.500 euro) hanno reso la Xcell una delle mete preferite dei pazienti europei, italiani compresi.
In agosto, dopo un servizio della tv pubblica tedesca Zdf che segnalava come questi viaggi della speranza si fossero rivelati nella maggior parte dei casi semplici palliativi, la Società tedesca di neurologia aveva preso le distanze dalla Xcell, obbligandola a rimuovere dal sito web informazioni inesatte e chiedendo al ministero della Sanità di vigilare.
“Manca qualsiasi prova sull’efficacia di questo tipo di trapianto e purtroppo per effettuare questi trattamenti non serve alcuna autorizzazione” spiega Reinhard Prior, docente di neurologia all’Università di Düsseldorf ed esperto mondiale di patologie neurodegenerative. In effetti i dettagli della cura per zio Claudio forniti dalla dottoressa Hossner lasciano più di un dubbio: “Si prelevano le staminali dal midollo osseo del paziente”. Una volta trapiantate, “sono in grado di trasformarsi e rigenerare il tessuto danneggiato. Un innovativo trattamento staminale sfrutta il potenziale di autoguarigione dell’organismo”. Sembra miracoloso, ma non lo è. “Le malattie come Alzheimer e Parkinson attaccano il sistema nervoso” ribatte Angelo Vescovi, professore di biologia cellulare all’Università di Milano-Bicocca. “Sostenere che staminali impiantate nel midollo osseo possano arrivare nella sede lesionata e ripararla mi pare fantascienza“. E aggiunge: “In futuro una terapia staminale forse potrà interrompere il processo degenerativo. Però difficilmente sarà possibile ripristinare un tessuto nervoso ormai morto“. A dargli ragione c’è la testimonianza, raccolta da Panorama, di Salvatore T., un italiano affetto da atassia cerebellare, malattia che colpisce il cervelletto rendendo difficili coordinazione motoria, andatura e linguaggio.
A tutt’oggi non esiste una cura. Ma quando lo scorso settembre Salvatore si rivolge alla Xcell, il suo caso viene accettato. “I medici tedeschi sostenevano che il 60 per cento dei pazienti come me fosse migliorato” racconta. “Al termine del trattamento mi dissero che le mie cellule erano migliorate qualitativamente. A quel punto le mie aspettative erano alle stelle”. Quattro mesi dopo, la frustrazione: dalla presunta cura Salvatore non ha ottenuto benefici. E anche se dichiara di avere ancora voglia di lottare, è chiaro come simili botte possano colpire l’equilibrio già fragile di un malato.
BEIKE- SVIZZERA
Torniamo in Svizzera, questa volta a Lugano. Una palazzina di uffici a pochi passi dal casinò ospita la sede europea della Beike, colosso cinese della ricerca medica che dal 2006 offre anche ai pazienti europei terapie a base di cellule staminali presso le sue cliniche di Shenzen in Cina e Bangkok in Thailandia. Per ora i ricercatori di Stanford hanno bollato il lavoro della Beike come “unproven”, non dimostrato.
Eppure, la società in Europa riceve ogni mese 200 richieste di intervento per curare dalla sclerosi laterale amiotrofica (Sla) alla distrofia muscolare, fino a neurodegenerazioni come Alzheimer e Parkinson. Così, per vederci più chiaro, abbiamo aggiunto all’elenco l’Alzheimer di zio Claudio e la distrofia muscolare del cugino Andrea.
A contattarci sono il vicepresidente della Beike Europe Andrea Mazzoleni, testimonial della società, e Gianni Demarin, responsabile della comunicazione. I due lavorano insieme da tre anni. Demarin ha un passato da dj e rappresentante di abbigliamento. Mazzoleni, 56 anni, ha in curriculum iniziative imprenditoriali, una candidatura alla Camera nel 2006 per la circoscrizione Esteri con il Partito italiani nel mondo e un incidente giudiziario: alla fine del 2007 la clinica Gulliver di Lugano, di cui era direttore amministrativo, è stata accusata dalla magistratura elvetica di truffa ai danni delle casse malati per trattamenti in day hospital dai rimborsi gonfiati. Per Mazzoleni, rimasto in carcere 25 giorni, l’inchiesta penale si è conclusa con “non luogo a procedere”.
Ma gli è stata revocata la licenza da infermiere e la Gulliver è stata chiusa. Fissiamo un appuntamento con lui per approfondire le cure per nostro zio. L’ambiente è asettico: in giro nulla fa pensare a siringhe e provette. Il vicepresidente chiarisce subito: “Noi mettiamo solo in contatto i clienti con la struttura. Analisi, screening e operazioni dipendono dai cinesi. E non sapete quanto siano diventati pignoli“. In effetti la Beike sostiene di bocciare il 60 per cento dei candidati alle sue cure. Ma evidentemente zio Claudio rientra fra coloro che possono migliorare: se fosse così, si tratterebbe di un caso unico nella storia medica, visto che i decorsi, per un Alzheimer che galoppa da quattro anni, sono giudicati irreversibili dalla comunità scientifica. “I miracoli non li fanno nemmeno le cellule staminali, altrimenti avremmo già preso 24 premi Nobel” ridacchia Mazzoleni, mentre una segretaria versa panna montata nel suo caffè e lui si accende una sigaretta.
“Quelle che usiamo noi comunque sono assolutamente sicure. Con le nostre cure per settimane le persone sono riuscite a fare una vita normale”. Difficile crederci, se si sentono gli esperti: “Le terapie proposte dalla Beike si basano sull’iniezione di cellule estratte dal sangue dei cordoni ombelicali” spiega Giulio Cossu, professore di istologia alla Statale di Milano e membro del comitato clinico della International society for the stemcell research, che ha elaborato le linee guida della sperimentazione sulle staminali in Europa. “Ma le cellule cordonali non sono in grado di riprodurre neuroni e non possono avere effetti su pazienti afflitti da Parkinson o Alzheimer”.
Da finti profani giriamo lo stesso interrogativo a Mazzoleni. Che corregge parzialmente il tiro: “Abbiamo trattato oltre 6 mila casi di questo tipo. Non abbiamo mai riscontrato peggioramenti né effetti collaterali”. Sì, ma i miglioramenti? “Beh, nel più sfortunato dei casi si mantiene la situazione attuale, ma con il vantaggio di avere più forza fisica, perché le cellule rigenerano l’organismo”. L’elenco dei presunti successi non si ferma qui: “Abbiamo malati di sclerosi multipla che hanno visto sparire le placche e che a tre ore dalla prima iniezione muovevano le braccia. Il miglioramento di base non sarà sicuro ma è quasi scontato”.
Chiediamo allora perché i loro risultati non vengano mai citati positivamente dagli organismi internazionali o da una qualsiasi rivista medica e ci viene risposto che in realtà “ricerche ne abbiamo a quintali, ma tutte in cinese. Lì la legislazione non si pone tanti problemi, né etici né, diciamo, di agenzie che autorizzano”.
E questo secondo lui dovrebbe tranquillizzarci. Sulla sclerosi multipla, addirittura, “abbiamo due o tre casi in cui potremmo parlare di guarigione”. Certo, aggiunge, si trattava di giovani, motivati e “con la giusta disponibilità economica”. Ovvero 32 mila euro. Quelli che chiederà a noi per un soggiorno di 28 giorni, volo escluso, nel B. Care medical center di Bangkok. Ci verrà data una camera con un letto per lo zio e uno “pieghevole” per l’accompagnatore, pasti solo per il paziente (ma, dice la brochure, c’è McDonald’s a due passi), tre bottiglie d’acqua e un asciugamano. Del resto ci invitano a considerare la nostra “non come una classica degenza in ospedale” ma come “un soggiorno a fini curativi in un miniappartamento collegato a un ospedale”.
Il trattamento, sei iniezioni intravenose spinali, sarà effettuato in camera. Poi bisognerà riposare. Nella brochure sono indicate le attrattive turistiche: bazar, teatri, musei. Anche se probabilmente non avremo tempo: “La figura dell’aiuto infermiera in Thailandia non esiste” spiegano, e questo lavoro “ricade sui familiari del paziente”. E poi si spera che qualcuno di noi parli inglese per scambiare due parole con le “poche persone” dello staff ospedaliero che lo parlano. Ma, in caso contrario, tranquilli: la signora Charee Sripaisalmongkol è a disposizione per traduzioni.
Tariffe da stabilire sul posto. Ovviamente le spese saranno difficilmente rimborsabili dalla asl. “Presentate comunque la domanda” consiglia Mazzoleni. “Vi risponderanno di no, ma se fate un ricorso formale noi vi forniamo dei documenti producibili… L’ideale è far fare tutto da un avvocato. Noi ne abbiamo uno a Como, molto bravo”. Il trucco, in questo caso, è avere “un medico amico che scriva che vostro zio potrebbe trarre giovamento da un trattamento con cellule staminali praticabile all’estero”. La verità è che quei benefici arrivano raramente: per scoprirlo basta non accontentarsi delle struggenti testimonianze dei pazienti guariti (spesso anonimi) che la Beike Europe fa girare su siti web e tv satellitari, ma ascoltare le testimonianze di chi è tornato senza alcun miglioramento percepito. I delusi si incontrano su Facebook, lo scorso aprile sono stati alla trasmissione Mi manda Rai3 e in Italia sei di loro hanno presentato denuncia contro la Beike Europe.
Anche a Lugano, secondo quanto risulta a Panorama, la polizia cantonale ha in corso un’indagine, di tipo patrimoniale, sulla struttura. “Abbiamo nemici perché siamo scomodi ” si lamenta al telefono Demarin, quando risponde alla nostra richiesta di cure per Andrea, il cugino 22enne distrofico. Per lui la Beike si spinge a prenotare le date del soggiorno senza neppure avere ricevuto il nostro via libera. “Stiamo buttando all’aria gli interessi di società farmaceutiche che hanno speculato per 30 anni sui finanziamenti per la ricerca” continua Demarin. “Vogliono screditarci perché scombussoliamo interessi notevoli. Al malato invece non pensa nessuno “. Già. La Beike invece ci pensa. In cambio di 32 mila euro.
EMCELL - UCRAINA
L’ultima tappa ci spinge a puntare sull’Europa dell’Est: la clinica Emcell di Kiev, in Ucraina. Qui vendono cure per sclerosi, disfunzioni sessuali e complicanze dovute all’aids. Con staminali di feti abortiti. Fondata una decina di anni fa dal dottor Alexander Smikodub, sulla pagina in italiano del sito web si legge: “A oggi abbiamo effettuato quasi 3 mila trapianti.
Per molte patologie la qualità del nostro trattamento è stata provata come statisticamente superiore a quella di molte altre terapie con strumenti classici”. E ancora: “In molte malattie inguaribili, quando la medicina non ha più nulla da offrire, questo trattamento dà speranze, migliora la qualità della vita e la prolunga”. Peccato che non venga fornita alcuna evidenza scientifica. “Sempre che la terapia esista davvero” dice Filippo Buccella, presidente della onlus Parent Project, nata per promuovere la ricerca sulla sindrome di Duchenne, una forma di distrofia che Smikodub afferma di curare dal 2005. “Da anni la Emcell risponde alle richieste internazionali di chiarimento diffondendo sempre le stesse quattro o cinque testimonianze video di pazienti che dicono di sentirsi meglio”. Compiliamo due moduli online: uno per Andrea, 22 anni, con distrofia di Becker, e l’altro per zio Claudio, 72, Alzheimer.
Meno di due giorni e veniamo ricontattati da Yuliya Panas, ricercatore senior della Emcell. Le due risposte sono in inglese, molto simili tra loro, e professionali. Si spiega che il centro prima di accettare i parenti avrà bisogno di un quadro più preciso: dati anagrafici, cartelle mediche, farmaci assunti, radiografie. L’approccio serioso svanisce però nel giro di poche righe: “Se non disponete di tutti i dati, mandate quello che avete”. Ad andare più veloce è la pratica di zio Claudio. Spediamo poche informazioni aggiuntive via email e la mattina dopo, senza che sia stato mai visto né visitato, viene accettato per il trattamento.
“La terapia cellulare permette l’arresto dei processi degenerativi connessi all’Alzheimer” ci informano. Anche se “è impossibile ripristinare la memoria danneggiata”.
Infine i particolari: “Il trapianto consiste nella somministrazione di staminali che provengono da feti abortiti legalmente e volontariamente”. Peccato che “manchino studi preclinici, un’anagrafe dei pazienti che registri le loro eventuali incompatibilità, un controllo sugli standard di trattamento” dice Buccella. Le uniche immagini disponibili dell’interno della clinica, girate dalla Bbc nel 2005, mostrano una struttura più che fatiscente: i corridoi sono sporchi, le attrezzature sembrano vecchie e logore.
Ma siamo così in ansia per zio Claudio che né i dubbi etici né quelli scientifici ci sfiorano: chiediamo alla dottoressa i dettagli. “Il costo delle cure in modalità day hospital è di 8 mila euro. Per vitto e alloggio dovrete provvedere da soli”. Subito dopo sfodera indicazioni che, più che dal giuramento di Ippocrate, sembrano tratte dal manuale del perfetto tour operator: “Il transfer aeroportuale lo offriamo noi. Per il soggiorno a Kiev sono disponibili camere d’albergo o appartamenti che possiamo prenotare. Almeno per tre giorni”.
Pacchetto completo, insomma. Con tanto di ricevuta. Stai a vedere che magari stavolta riusciamo anche a farci pagare l’intervento dalla asl. La risposta però ci delude: “L’intervento non è in alcun modo rimborsabile”. Pazienza. Tanto i soldi non li avremmo tirati fuori comunque.
di Gianluca Ferraris e Ilaria Molinari con Karen Rubin

Finti macellai e i dispiaceri della carne: la mappa italiana

Centinaia e centinia di carcasse scarnificate. Come sul set di un film dell’orrore. Invece era tutto reale: i teschi e gli scheletri di pecore, capre, bovini e bufale mescolati al pellame e alle interiora, spuntavano ovunque.
La campagna intorno a Caivano, paesino della periferia nord di Napoli, era stata scelta da alcuni macellai abusivi come discarica a cielo aperto per la loro attività illecità.
Ogni giorno caricavano sul furgone o sul trattore le parti del bestiame che non riuscivano a vendere, né sul mercato legale delle carni né su quello clandestino, e le abbandonavano un po’ nel canale Regio Lagno che collega la zona industriale del capoluogo partenopeo a Caserta, un po’ nel campo adiacente: diecimila metri di terra interamente ricoperti di ossa. Così, giorno dopo giorno, insieme ai resti sono aumentati i cattivi odori, le mosche, i gatti e i cani affamati.
E la carne degli animali che fine ha fatto? Ha trovato posto nei banchi delle macellerie, in alcuni ristoranti della città e anche in qualche supermercato. I carabinieri del Nas di Napoli hanno scoperto e sequestrato, nei primi giorni di gennaio 2010, una villetta e alcune stanze di un altro edificio trasformate in laboratorio dove i titolari macellavano abusivamente centinaia di capi di bestiame, in particolare pecore e capre. Ovviamente, senza nessun rispetto per le norme igenico-sanitarie e men che meno per la conservazione della carne. Molto presunibilmente, quindi, le bistecche,le costine e i cosciotti sono finiti, per alcuni mesi, nei piatti degli napoletani.
Com’e stato possibile? Facile: i finti macellai falsificavano i timbri sanitari. E, con gli attestati di controlli in realtà mai effettuati dalle Asl, le carni macellate abusivamente entravo nel circuito legale della vendita. E non che fosse la prima volta. I Nas avevano già sequestrato, qualche settimana prima, gli stessi locali ma i macellai abusivi, sprezzanti del divieto, avevano rotto i sigilli e coperto il provvedimento dell’Autorità giudiziaria affisso al portone d’ingresso con un sacco dell’immondizia.
Ma il caso del capoluogo campano non è il solo. In poche settimane sono state denunciate, dal Sud al Nord della Penisola, dai carabinieri per la Tutela della Salute 11 macellai abusivi, sequestrati 7 impianti di macellazione e ritirate dal mercato oltre 12 tonnellate di carne lavorata abusivamente.
A Brescia l’attività illegale veniva svolta in un garage tra scooter, biciclette e attrezzi per il bricolage. Assieme ai martelli, chiodi e cacciaviti c’erano anche i coltellacci e i tavoli dove venivano lavorate le carni. Volatili in particolare. I macellai abusivi lombardi ne confezionavano di tutte le specie. Proibite e non. I Nas ne hanno sequestrate solo all’interno del garage oltre 3 tonnellate potenzialmente pericolose per la salute dei consumatori.
Dalla Lombardia al Veneto. In Provincia di Treviso, il business era la macellazione illegale dei conigli. I titolari di un’azienda agricola si erano “reinventati” macellai e avevano creato in una stanza adiacente alla stalla, un vero e proprio laboratorio per la lavorazione delle carni (e non solo quelle dei conigli): peccato che non avesse nessun requisito sanitario. Durante le perquisizioni sono spuntati da armadi e frigoriferi anche diversi quintali di insaccati e volatili.
Tornando al Sud, i casi di Catanzaro, Potenza e Salerno. In Calabria sono state messe sosttosequestro 11 tonnellate di salame, mortadella e specialità locali. Le carni, che stavano per entrare nel circuito legale di norcinerie e della ristorazione, erano conservate in un deposito di materie prime utilizzate per la produzione di insaccati che non possedeva nessuna licenza e neppure ambienti idonei alla lavorazione degli animali. Stessa sorte per le carni macellate in condizioni igenico-sanitarie e strutturali precarie, in uno stabilimento di Potenza.
A Scafati, in provincia di Salerno, invece la Guardia di Finanza ha scovato quattro macellai abusivi che si erano improvvisati anche esperti importatori: acquistavano capi vivi di bestiame dalla Germania, Belgio e Austria che una volta giunti in Italia veninano macellati clandestinamente in capannoni disseminati nelle campagne campane e “piazzati” nel settore del commercio all’ingrosso.
In pochi mesi gli pseudo-macellai sono riusciti a guadagnare “in nero” oltre 90 milioni di euro ed ad evadere 17 milioni di euro di Iva e 78 milioni di base imponibile Irap.
D’altronde la macellazione abusiva e il contrabbando delle carni è un mercato davvero redditizio. Solamente nei dodici mesi del 2009, stando ai dati del Nas, sono stati sequestrati 305 mila chilogrammi di carne per un valore di oltre 35 milioni e 174 mila euro. Nel corso delle 4.726 ispezioni effettuate lo scorso anno, sono state riscontrate 1.298 infrazioni di carattere penale e chiusi 251 stabilimenti di macellazione, molti dei quali abusivi.
Neppure il settore della lavorazione degli insaccati è immune da abusivismo o irregolarità nel confezionamento del prodotto: 4, 1 tonnellate di salumi e insaccati sono stati distrutti perché tossici o mal conservati. Dieci in totale gli stabilimenti sequestrati.

Chi ha incastrato Piero Marrazzo (e non solo lui)

I viali e le notti di Roma Nord nella testa del procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, un magistrato cui anche i nemici riconoscono fiuto da detective, assomigliano molto ai racconti losangeleni di James Ellroy. Nelle carte dell’accusa, la squadra di carabinieri coinvolta nel videoricatto all’ex presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, ricorda il manipolo di poliziotti corrotti raccontati da Ellroy in La notte non aspetta, un suo soggetto per il cinema: spacciano, rapinano, ricattano, trattano con i narcotrafficanti e financo uccidono. Lunedì 19 aprile la Cassazione ha sentenziato che quei carabinieri erano «prevaricatori» con i deboli e che l’ex governatore, coinvolto in un giro di trans e droga, era «la vittima predestinata di un’imboscata organizzata per non dargli scampo». Una squadra che non avrebbe perso il potere d’intimidazione: per questo i pm, dopo l’allarme lanciato da un’ex prostituta brasiliana, hanno chiesto un incidente probatorio urgente per nove cittadini stranieri, testimoni nella vicenda.
In procura sono convinti che non siano affiorate tutte le malefatte e nemmeno tutti i componenti della banda: tre militari sono in carcere (Luciano Simeone, Nicola Testini, Carlo Tagliente); uno ha obbligo di firma (Antonio Tamburrino); ma ci sono altri due carabinieri indagati (uno per false dichiarazioni ai pm) e molti altri sono stati intercettati o sottoposti ad approfondimenti. Praticamente l’intera compagnia Trionfale, cui appartenevano i carabinieri in prigione, ha vissuto gli ultimi sei mesi in un Grande fratello giudiziario. Una cosa è certa: secondo l’accusa, la verità sul caso Marrazzo è ancora tutta da scrivere. Panorama, citando fonti e documenti esclusivi, è in grado di anticipare alcuni dei capitoli che potrebbero riportare la vicenda al centro delle cronache nelle prossime settimane.
L’IMPRENDITORE E L’ATTORE
«Ti avevo chiamato per la seconda cosa, tu capisci a me» diceva al telefono il carabiniere scelto Simeone al collega Tamburrino. Era il 12 ottobre 2009 e Tamburrino, in quelle ore, era impegnato a piazzare il video di Marrazzo (parlando in codice lo chiamano «macchina») all’agenzia milanese PhotoMasi. Tamburrino replicava: «Eh, lo so, però è sempre meglio fare prima quella e poi l’altra».
Secondo gli inquirenti, gli indagati discutono di un secondo video. Due giorni prima Simeone e il maresciallo Testini avevano affrontato lo stesso argomento, sempre parlando in codice: «Noi andiamo con la macchina, quella vecchia, non la macchina nuova».
I pm sono convinti: non disquisiscono di motori. Ma qual è la «macchina nuova» pronta a essere messa sul mercato poche ore prima del loro arresto? Il rebus potrebbe risolverlo l’imprenditore ventisettenne F. D., indagato per la ricettazione del filmino di Marrazzo e che ai pm ha già detto: «Quelli (i carabinieri, ndr) ricattavano mezza Roma Nord».
In particolare, secondo F. D., s’incollavano ai cocainomani più facoltosi. Lui è entrato in contatto con la squadra il 1° ottobre 2008, proprio a causa del suo vizio: infatti venne arrestato per detenzione e spaccio di droga. «Lo stesso giorno qualcuno mi ha svuotato la cantina, ma non posso dimostrare che fossero loro».
Dopo alcune perquisizioni i rapporti fra F. D. e i carabinieri infedeli sono migliorati: «Gli ho venduto cose di mia proprietà: una moto prodotta in serie limitata, due televisori, alcuni computer; poi ho iniziato a frequentarli, a studiare i loro comportamenti» dichiara l’uomo a Panorama. Nel settembre 2009 è stato coinvolto nella commercializzazione del filmino: «Simeone mi disse che erano pronte altre due trappole. Una riguardava un noto sportivo, l’altra un giovane attore con la fama di macho». F. D. fa i nomi dei due personaggi, ma Panorama sceglie di non pubblicarli.
Camila, un viado ascoltato più volte in procura dove è ritenuto un testimone affidabile, conferma indirettamente la vicenda: «L’attore» ricorda «è venuto qui da me tre volte. Sempre con il cappellino calato sulla fronte. Lo sportivo non l’ho mai sentito nominare».
Panorama ha contattato l’uomo di spettacolo, che in passato non aveva negato l’esperienza con un trans: «Ma erano altri tempi. Ora tengo famiglia» ribatte l’artista. La notizia che secondo un testimone i carabinieri volessero ricattare pure lui un po’ lo spiazza: «Chiederò informazioni» dichiara. Ultima domanda: conosce Camila? Breve momento di silenzio e poi un sospiro: «Che brutta storia».
IL SECONDO LIVELLO CHE NON C’E’
Per mesi gli inquirenti hanno cercato il presunto burattinaio del cosiddetto affaire Marrazzo: un politico, un ufficiale dell’Arma o un altro nemico dell’ex governatore del Lazio. E per qualche settimana hanno creduto di poterlo individuare, seguendo un canale sino a oggi poco arato dai media. Vediamo quale.
L’inchiesta inizia casualmente, grazie alle intercettazioni ordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze in un’inchiesta su un traffico internazionale di stupefacenti. È il settembre 2009 e proprio F. D. viene coinvolto nella commercializzazione del filmino: per questo lo propone a un personaggio che sembra uscito da una spy-story. L’uomo, le cui iniziali sono R.P., è quasi un sosia di Raoul Bova: elegante e raffinato, vive tra l’Italia e gli Emirati Arabi, ma secondo gli inquirenti toscani nasconde una doppia identità e in realtà sarebbe un narcotrafficante. Per questo viene intercettato.
Così la storia del video inizia a viaggiare nell’etere tra Roma e La Spezia. Qui R.P. è in contatto con un altro imprenditore, M.F., specializzato in produzione di giubbotti antiproiettile (nelle foto depositate in tribunale sfoggia lunghi capelli e Ray-Ban scuri) e insieme stanno provando ad acquistare una compagnia aerea. Nel tempo libero si interessano anche di Marrazzo.
Gli investigatori che ascoltano le voci degli indagati non capiscono subito chi sia la vittima, ma annotano che nel filmato sarebbe ripreso un«presidente» e per questo inviano gli atti a Roma. Nel frattempo R.P. e M. F. propongono il video a una donna di Latina, per gli inquirenti una escort che sarebbe imparentata con un senatore del centrodestra. R. P. parla con lei al telefono: «C’ho un video in mano che se lo vede tuo cugino impazzisce… è il rivale (Marrazzo, ndr) di quella persona che sta in quella posizione… si è divertito con i trans…».
M. F. è fratello di un capitano dei carabinieri impegnato all’estero ed è in contatto con ufficiali dell’Arma a Roma e Firenze: si parla di possibili raccomandazioni per la squadra. L’inchiesta sembra decollare verso un livello superiore. I magistrati indagano, ma non trovano riscontri, né individuano il politico misterioso. La donna, rintracciata da Panorama, spiega la vicenda a suo modo: «Ho frequentato per alcuni mesi quei signori. Conducevano una vita brillante, mi portavano a cene con gente altolocata: per sentirmi all’altezza ho millantato parentele politiche che in realtà non ho». Insomma, il «secondo livello» non esiste.
ASSASSINI O SPACCIATORI?
Secondo l’accusa, a uccidere il pusher Gianguerino Cafasso, l’uomo che avvertì i carabinieri dell’arrivo di Marrazzo a casa del trans Natalì, fu una dose troppo pura di eroina e cocaina consegnata dal maresciallo Testini. Un gip e il tribunale del riesame hanno accolto l’ipotesi dell’accusa. Resta un dubbio, se si tratti di omicidio volontario o di morte «come conseguenza di altro delitto». Infatti la procura ha contestato al gruppo anche lo spaccio di droga. Ma Testini, difeso dai legali Valerio Spigarelli e Marina Lo Faro, ha ucciso o ha avuto la sfortuna di cedere droga tagliata male?
Una risposta, forse, si può trovare fra le righe del verbale datato 28 gennaio 2010 del trans Jennifer, ex compagno di Cafasso e presunto testimone oculare dell’incontro del pusher con il maresciallo la notte dell’11 settembre, quella precedente il decesso. Il brasiliano (oggi protetto in un centro per vittime della tratta) ha dichiarato: «La droga consegnata da Nicola è stata in parte messa da Rino in un pacchetto vuoto di sigarette».
Jennifer aggiunge: «La droga che aveva intenzione di pippare con me quella notte Rino l’ha portata in albergo (dove risiedevano, ndr). Pensava di riprendersi il giorno dopo quella nel pacchetto per spacciarla, come era sua abitudine».
In pratica, Jennifer sostiene che Testini non diede a Cafasso solo la dose letale, ma anche altra droga da vendere. Si spiega così il narcotest descritto dal trans: una provetta in dotazione alle forze dell’ordine, che diventa blu in presenza di cocaina, con cui Testini e Cafasso hanno esaminato la qualità dello stupefacente.
L’ipotesi che il carabiniere fosse il fornitore del pusher e non il suo assassino potrebbe essere rafforzata dall’sms che Jennifer ha inviato con il cellulare al maresciallo dopo la morte dell’amante e l’interrogatorio della polizia: «Sono a Roma» ha scritto. Perché informare dei propri spostamenti l’uomo che aveva avvelenato Cafasso, rischiando di uccidere anche lui? Probabilmente perché Jennifer non gli attribuiva la volontà di fare del male. «O magari perché quella notte Testini e Cafasso non si sono mai incontrati» ipotizza Angelo Jannone, consulente della difesa ed ex comandante del secondo reparto investigativo del Ros, lo stesso che sta indagando sul caso Marrazzo. «L’esame critico delle prove ci consente di confutare la testimonianza di Jennifer» dice il colonnello. «Lo studio dell’ampiezza delle celle telefoniche permette di dire che nel periodo in cui la procura circoscrive l’incontro fra Testini, Cafasso e Jennifer i tre avrebbero potuto essere in luoghi distinti tra loro. I dati possono avere letture molto diverse».
LA VERITA’ SU BRENDA
Sulla squadra di carabinieri infedeli incombe anche il fantasma di un’altra morte, quella di Brenda, il viado amico di Natalì, morto il 20 novembre 2009 per asfissia a causa di un piccolo incendio nel suo monolocale in via Due Ponti. La procura procede per omicidio, ma per ora non ci sono riscontri né nomi di presunti assassini. Anche Brenda incontrò a pagamento Marrazzo in compagnia del proprio coinquilino, Michelly, un monumentale trans di colore: insieme all’ex presidente del Lazio sembra abbiano girato un video in una vasca da bagno.
Nelle carte della procura si legge: «In data 8.11.2009 veniva registrata una conversazione intrattenuta da Brenda con uno straniero sconosciuto, nel corso della quale così si esprimeva: “Adesso è uscita un’altra con il governatore e si è accordata con Nicola e Carlo (cioè Testini e Tagliente, ndr), ricordi? E lo hanno ricattato, volevano ricattarlo però quella ha detto che ero stata io…”». Un dialogo poco decifrabile, cui però gli inquirenti pongono una chiosa sibillina: «Peraltro, nelle prime ore della mattina del 20.11.2009, Brenda veniva trovata cadavere all’interno della sua abitazione, dove si era sviluppato un incendio».
Maureen, un’ex prostituta sudamericana, è stata sentita in procura come testimone alla metà di aprile: ha detto di avere saputo da un amico trans che un’estetista brasiliana, poco prima della morte di Brenda, avrebbe fatto realizzare un duplicato della chiave dell’appartamento di quest’ultimo e la avrebbe consegnata ad alcuni cittadini romeni. Realtà o una delle tante leggende che girano in via Due Ponti?
È certo che, proprio nei giorni della telefonata con lo sconosciuto, Brenda fu coinvolta in due strani episodi. L’8 novembre lui e altri trans furono aggrediti da due giovani romeni, che però ebbero la peggio, finendo in ospedale dopo la reazione dei brasiliani. Quella stessa notte Brenda fu malmenata da una banda, pare sempre di romeni, che le rubarono il cellulare. «Probabilmente lo stesso telefonino su cui io ho visto il video girato da Brenda, con Marrazzo e Michelly» dice Camila a Panorama.
È noto che i carabinieri della squadra avessero diversi confidenti dell’Est Europa. Resta da capire se le aggressioni siano collegate con la morte di Brenda. Ma soprattutto se gli eventuali killer avessero un mandante. Magari in divisa.

Le notti brave dei preti gay: tutti i video con l’inchiesta completa

È la sera di venerdì 2 luglio. Sono da poco passate le 9. All’interno di un pub nel quartiere Testaccio di Roma le uniche donne presenti sono le cameriere. Le due sale del locale, senza finestre e con muri che vogliono riprodurre l’interno di una caverna, sono riservate per una festa. Nella prima è stato apparecchiato un buffet con frittatine, insalata di riso e patatine. Nella seconda un dj arrivato dalla Toscana sta mettendo a punto la musica, nell’attesa che inizino le danze…
Si apre la porta del bagno. Escono due fusti in pantaloncini di jeans formato perizoma, anfibi neri sotto il ginocchio e gilet colorati, ricamati e sbottonati. Passano in mezzo agli ospiti e salgono sul palchetto rialzato che domina la pista da ballo. I loro corpi, tanto ricchi di muscoli quanto poveri di peli, sono più unti delle bruschette con mortadella sparse sui piatti del buffet. Sono venuti dal Piemonte per essere le «ciliegine sulla torta» di una serata che qualcuno ha voluto fosse molto speciale. Parte la musica, si abbassano le luci, si comincia a ballare. L’atmosfera si scalda. I due cubisti trascinano sul palco un uomo sui 35 anni. Indossa dei jeans con cintura bianca e una camicia rosa sbottonata che mette in evidenza una discreta abbronzatura. È francese e vive a Roma da diversi anni. È lui che ha organizzato la serata, ha contattato i due ballerini, li ha ingaggiati, pagati e prelevati poche ore prima dall’aeroporto di Fiumicino per portarli fin lì. Ora i due fusti gli rendono omaggio e lo mettono in mezzo, a sandwich, tra i loro corpi oliati. Lo coinvolgono in una danza molto sensuale, si strusciano, gli aprono la camicia, lo accarezzano, lo baciano. Una dirty dancing a tre, in versione chiaramente omosessuale.
Il francese che si dimena però non è un gay qualunque, ma sarebbe un prete: pochi giorni prima sembra abbia addirittura celebrato messa in Vaticano. E io sono uno degli invitati alla festa del Testaccio, fra i quali pare ci siano altri tre sacerdoti: un italiano, che individuo in un uomo con gli occhiali e un’età tra i 45 e i 50 anni, un brasiliano e un tedesco. Per il momento non so nulla di più e non sono neppure certo dell’identità e del ruolo delle persone interessate. La «soffiata» arrivata a Panorama non aggiungeva altro, al di là del luogo della festa e di alcuni partecipanti decisamente fuori dal comune. Potrei anche essere finito in mano a gente in malafede o a dei mitomani: nessuna ipotesi va tralasciata. Ma la serata è solo all’inizio e ciò che succede nella notte e nei giorni successivi aprirà scenari imprevedibili.
UNA TELEFONATA, ALLA FINE DI GIUGNO
Prende così il via un lavoro minuzioso, alla ricerca di riscontri. Una ventina di giorni fra appostamenti, partecipazioni a funzioni eucaristiche mischiati tra i fedeli, avvicinamenti di volontari nelle comunità parrocchiali, ricerche su internet e su Facebook. E soprattutto una frequentazione assidua con un gruppo di gay romani. Alla fine i punti fermi ci sono tutti e si delinea il quadro di una parte del clero che vive nella capitale, piccola ma non riducibile a casi isolati, che neanche tanto in segreto dà libero sfogo alla propria sessualità e trascorre l’esistenza all’insegna dei vizi privati e delle pubbliche virtù.
Com’è possibile che Panorama sia stato invitato alla festa dalla quale prende il via questa inchiesta? Tutto ha inizio in un caldo pomeriggio di fine giugno. Un ragazzo chiama in redazione per raccontare un fatto insolito: all’interno di una sauna di Roma, frequentata soprattutto da omosessuali, è stato avvicinato da un uomo di nazionalità francese che alla fine si è … offerto di dargli uno strappo fino a casa. Salito in macchina, continua il ragazzo, gli è caduto l’occhio su un collarino bianco adagiato sul cruscotto: «Sì, sono un prete» gli ha detto l’accompagnatore che, di fronte allo sguardo stupito del ragazzo, ha spiegato che tanti altri «colleghi» (li chiama proprio così) frequentano posti come quello o come il Coming out, locale per omosessuali dalle parti del Colosseo, oppure il Gay village. L’uomo racconta che qualche tempo prima lui stesso sarebbe stato costretto a scappare dalla sauna quando si è trovato di fronte un «collega» dal quale non voleva farsi scoprire. Conclude aggiungendo la storia di un brasiliano e un tedesco, entrambi preti, che da quando si sono fidanzati sono però diventati un po’ «stronzetti». Da quell’incontro, il francese e il ragazzo si scambiano molti sms. Il primo lo chiama «tesoro» o «cucciolo» e gli racconta dei suoi impegni, dal pomeriggio in cui deve fare «una doccia abbronzante » fino alla messa che «devo celebrare stasera alle 18 dove farò una preghiera per te, se vuoi». Si offre poi per fargli «due coccole », una prospettiva che lo fa ridere («hihihihi, adoro le coccole ») e infine lo invita a partecipare a una festa che si terrà la sera di venerdì 2 luglio al Testaccio, ma lo prega di «non dire che ci siamo conosciuti la settimana scorsa in sauna». Quando il ragazzo gli chiede se può portare «un’amica», che poi sarebbe il cronista di Panorama, il francese prima dice che «rischia di essere l’unica ragazza hihihi della serata perché gli altri sono tutti i miei amici»; poi, quando viene tranquillizzato sul fatto che l’accompagnatore è maschio, dà il suo benestare.
Eccoci alla festa, dunque, nei panni dell’amichetto di colui che da questo momento diventa il mio «fidanzato». Ci sono almeno una trentina di persone. Durante l’aperitivo sediamo al tavolo di una coppia: un ragazzo sardo, basso, capelli corti, canottiera, collana d’acciaio più bracciali e anelli, e un pugliese, più alto e in camicia. Il sardo ride continuamente. È felice; a Roma è venuto apposta da Cagliari per la festa e ci chiede come abbiamo fatto a conoscere il francese: «L’avete incontrato in confessionale?». Il pugliese invece s’indigna, dice che gli fa schifo pensare a preti che di giorno predicano in un modo e poi la sera fanno l’esatto contrario. Dice che ce ne sono in giro parecchi e che a Roma c’è una basilica dove ogni tanto gli omosessuali «passano a fare il bancomat». Lui stesso dice di avere accompagnato un amico davanti a questa chiesa: dopo 20 minuti è tornato in macchina con 300 euro in tasca.
Il cubista che salta in piedi sul tavolo dà il segno: è il momento di ballare. Ma quando il ballerino ti acchiappa per i capelli e ti tira a forza contro le sue parti basse, beh quella è una sorta di porta che ti si chiude alle spalle. Se rimani, sai a che cosa vai incontro. Riesco a staccarmelo di dosso con la scusa che davanti a tutti mi vergogno e con la promessa che recupereremo più tardi, lontano da occhi indiscreti.
Le stesse premure vengono riservate al (per il momento) presunto prete italiano, l’uomo con gli occhiali e un’età tra i 45 e i 50 anni, che viene preso in mezzo dai due escort e trascinato in un angolo buio della sala. Il trattamento dura almeno una ventina di minuti, l’italiano riemerge senza occhiali e con la camicia aperta e abbassata all’altezza dei gomiti.
IN MUTANDE A RIGHE ORIZZONTALI
Si va avanti così fino a tarda notte, quando ci si ritrova davanti al locale a fumare. Il presunto prete italiano racconta di un incontro con il Papa, la settimana prima, e fa l’imitazione di Joseph Ratzinger: «Fenite a me, ragazzi, fenite». Si fanno programmi per il giorno dopo, con il gruppo che vuole fare una gita al mare e l’italiano che declina perché deve celebrare sia al mattino sia alla sera. Il francese invece fa programmi più a breve termine: si va tutti a bere qualcosa dal mio «fidanzato» e ci si ferma a dormire lì. E così sarà. Con il francese in mutande a righe orizzontali che si infila nel letto del padrone di casa. E quando questi gli dice che lo eccita il fatto che lui sia un prete e che il massimo sarebbe se indossasse l’abito talare, il francese apre la borsa, si nasconde dietro una colonna della stanza e rispunta con la camicia grigia d’ordinanza, i boxer a righe, il collarino e gli occhiali. «Come sto?» chiede mentre gli si fa incontro per baciarlo. Tutto il resto è sesso.
La mattina dopo il francese ha un nome e cognome: per rispettarne la privacy noi lo chiameremo Paul. Non sappiamo ancora, però, in quale struttura ecclesiastica vive e dove celebra messa. Nulla è garantito: potrebbe essere una sorta di strano maniaco in cerca di avventure trasgressive. Ma una richiesta di amicizia su Facebook, accettata nel tardo pomeriggio di sabato 3 luglio, aiuta a delineare un po’ meglio il suo profilo. Ci sono tantissime foto, dalla cerimonia per la sua ordinazione sacerdotale fino alle tante celebrazioni eucaristiche in Vaticano: in diverse immagini, Paul è ritratto accanto al Pontefice. Infine ecco alcuni momenti di svago, come una gita in compagnia del «prete italiano» della festa e di due ragazzi.
Si tratta delle stesse persone che incontriamo la sera di sabato 3 luglio al Gay village, il ritrovo romano degli omosessuali. È il giorno del Gay pride romano, dal quale i nostri amici si sono opportunamente tenuti alla larga. Ci sono stati solo i due escort, che ci raccontano le meraviglie di una manifestazione che hanno vissuto da protagonisti: sono riusciti a infilarsi nel carro di Vladimir Luxuria e di una onorevole di cui non hanno colto il nome. Ma quando costei è stata intervistata dalla tv, giurano che erano proprio dietro di lei. Uno dei due spera che la scena non sia stata vista dalla madre e dalla fidanzata in Sicilia: per loro, lui ufficialmente fa il ballerino a Torino.
Al village ritroviamo anche il «prete italiano», reduce da due messe celebrate in giornata. Mentre i due escort, ubriachi, ballano e baciano chiunque gli capiti a tiro; il «prete italiano» tiene un profilo più basso e va via prima degli altri. Non prima di avere flirtato un po’ con il mio «fidanzato». Gli parla del suo appartamento che «si affaccia sul Pantheon» e dal quale si gode una delle migliori viste su Roma. Paul invece a un certo punto sparisce con uno dei due escort. Poi torna in pista, sparisce ancora perché dice di avere intravisto un altro «collega» dal quale non vuole farsi vedere, sparisce una terza volta per colpa di una catechista che conosce, infine tira tardi e conclude la serata nello stesso letto del giorno prima.
UNA MESSA CELEBRATA IN SALOTTO
L’indomani è domenica, 4 luglio. È il giorno della messa. Ma quando ci si alza dal letto è già l’ora di pranzo. Andiamo a mangiare un’insalata di pollo in un McDonald’s. Ci sono anche i due escort, canotta da combattimento, grandi collane e trolley in mano, pronti a partire con un aereo nel tardo pomeriggio. A tavola si parla del più e del meno. L’escort con la mamma e la fidanzata ignare in Sicilia dice che il suo sogno sarebbe quello di sedere almeno una volta accanto a Joseph Ratzinger. Paul sostiene che l’ha fatto per un anno intero e per un anno ha celebrato messa per lui. Lui che lo conosce sostiene che Ratzinger è meno cattivo di come lo dipingono certi media e che non sarebbe stato facile per nessuno raccogliere l’eredità di Karol Wojtyla. Probabilmente millanta, ma parla degli appartamenti papali, di Ratzinger che quando è entrato non ha voluto nulla di particolare, nessun addobbo floreale, nessun quadro di valore: avrebbe solo fatto ritinteggiare le pareti e fatto acquistare (testualmente) «alcuni mobili all’Ikea». Inoltre il Papa tedesco sarebbe così buono da devolvere in beneficenza tutti i proventi dei propri libri.
A sentire Paul, in realtà la vera «anima nera» della Chiesa sarebbe un alto prelato, di cui fa nome e cognome. Alle 2 ci alziamo da tavola. Siamo in cinque e ci dirigiamo verso casa del mio «fidanzato», dove Paul ha in programma di celebrare la messa domenicale. Per strada squilla il telefono di uno dei due escort. È un cliente: vuole vederli subito, chiede di raggiungerlo nel suo appartamento. Il tempo è risicato, rischiano di perdere l’aereo. «Non c’è problema, sarà una marchetta veloce» ridono, mentre salgono in taxi e ci lasciano i loro trolley.
Prima di entrare in casa, Paul tira fuori una valigetta dalla sua macchina. Ci mettiamo in salotto. Lui adagia sul tavolino un quadrato di lino bianco con ricamata una croce rossa in mezzo, poi sistema il calice, l’ostia grande, due bottigliette con acqua e vino, un crocifisso in testa e accende una candelina. Infine entra nella camera da letto e torna con l’abito bianco talare e una stola verde sul collo che gli arriva fino ai piedi. La messa per due fedeli (e tre icone attaccate ai muri del salotto: Audrey Hepburn, Uma Thurman versione Pulp Fiction e Valentina di Crepax) può cominciare. «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». Paul inizia dicendo che «siamo riuniti per celebrare questa messa domenicale, che è anche l’occasione per ringraziare Dio della nostra nuova amicizia». Ma prima «riconosciamo i nostri peccati e affidiamoci alla misericordia di Dio». Confessiamo tutti e tre che abbiamo «molto peccato, in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…». Colpa dalla quale bisogna fuggire, ci esorta l’officiante nella breve predica «per tornare a Dio, perché tutto promana da Dio».
Alla fine andiamo tutti in pace. Io e il mio «fidanzato» a cercare nuovi elementi sul «prete italiano», dopo che abbiamo ottenuto il suo contatto su Facebook e il suo numero di cellulare. Paul invece sistema la sua valigetta sacra nel baule dell’auto, accanto ai trolley dei due prostituti, e li accompagna in aeroporto raggianti per la riuscita veloce della marchetta.
Nei giorni successivi ci si concentra sul presunto prete italiano: lo chiamaremo Carlo, anche se non è il suo nome. Al primo messaggino si dice «felice del nuovo contatto, anche se non ho un terrazzo ma un’ottima vista dalla finestra». Aggiunge: «Sono come il Papa su San Pietro. A presto. Bacio a te». Basta inserire il suo nome e cognome su internet e vengono fuori notizie e foto che lo ritraggono in occasioni pubbliche, mentre l’amicizia che ci concede su Facebook conferma tutti gli elementi raccolti fino a quel punto. Resta solo da scoprire il posto dove celebra messa per avere l’ultimo tassello, quello definitivo. Sia per lui sia per il prete francese ci sforziamo di non dare nulla per scontato: per quanto ne sappiamo potrebbero anche essere ex sacerdoti, o addirittura scomunicati. Il rischio è alto.
Carlo dà notizie con il contagocce. Da una parte le avance che gli facciamo di continuo via sms non sortiscono effetto immediato perché, scrive lui, «la cosa mi sorprende un po’, sono vecchietto e per nulla top. Sono sincero: ho iniziato a vedermi con uno, penso comunque si possa fare». Dall’altra parte ha una vita sociale molto intensa, che lo porta a disdire appuntamenti anche all’ultimo momento. In quel caso chiede «a quali punizioni andrà incontro», e quando gli vengono prospettate situazioni ammiccanti scrive: «Cosa mi converrebbe di più?».
UN SOPRANNOME ESPLICITO: «CERCO PRETI»
Infine Carlo accenna a celebrazioni che lo aspetterebbero per il giorno dopo, ma non specifica mai in quale chiesa. Così, per diversi giorni, assistiamo a tutte le funzioni che si svolgono dal mattino alla sera nelle chiese intorno al Pantheon, la zona dove Carlo dice di abitare. Il problema è che ce ne sono un’infinità e del nostro prete non riusciamo a trovare traccia.
Nel frattempo accade qualcosa d’inaspettato. Mentre siamo intenti nelle nostre ricerche su internet, in un chat-group si fa vivo uno sconosciuto che si presenta col nickname «ospito a Trastevere» e chiede massima riservatezza. Nella chat si entra senza preventiva registrazione, noi scegliamo quindi un soprannome esplicito: «Cerco preti». Il nostro interlocutore ci approccia. Fa domande su domande, vuole sapere età, zona in cui viviamo, cosa ci piacerebbe fare, peso, altezza e caratteristiche: mascoline o femminili, attive o passive. Dice di chiamarsi Luca, di essere un molisano residente a Roma da 25 anni, e garantisce: «Sono un vero prete». Prendiamo appuntamento per la sera stessa, alle 9. Accompagno il mio «fidanzato» in un quartiere del centro. È martedì 6 luglio. Lo seguo da vicino mentre incontra Luca. Eccolo: alto, magro, capelli chiari, pantaloni beige, maglietta bianca, occhiali, sandali ai piedi. Una breve presentazione e gli fa strada verso la vicina chiesa di una missione cattolica con gli alloggi sopra. Luca tira fuori una chiave e apre il portone: non sa che il mio complice ha con sé una telecamera nascosta. I due attraversano l’atrio, dove una persona è seduta al computer, e salgono al secondo piano. Luca socchiude la porta della camera: dentro c’è una grande libreria, una scrivania con la Bibbia aperta su un leggio. In tre secondi si spoglia a trascina a letto il mio «fidanzato ». Dopo un rapporto sessuale, apre l’armadio e mostra i suoi abiti sacri: due tonache nere, una bianca, una verde. Mentre riaccompagna al portone l’amante occasionale, gli chiede se ha soddisfatto la sua curiosità di «fare sesso con un prete». Luca racconta che di solito succede il contrario: dopo il corteggiamento in chat, quando dice di essere prete molti scappano.
«QUI SEI IN UN LOCALE GAY FRIENDLY»
Intanto Paul ci concede l’amicizia anche alla sua pagina privata su Facebook, dove figura con un nome diverso da quello che ci ha dato. Qui la foto d’apertura è un primo piano del suo occhio destro, e i contenuti sono tutti a sfondo omosessuale: immagini di culturisti in posa; falli di ogni misura; perfino quello che potrebbe anche essere un fotomontaggio, con due uomini che posano nudi su un altare. Paul sta per partire per la Francia, dove rimarrà per tre settimane, ma il giorno prima dice messa alle 7 in Vaticano. Dopo la sua partenza facciamo un salto al convento romano dove alloggia. Chiediamo di lui. Ci dicono che è appena partito e che tornerà intorno al 10 agosto. La conferma, unita a molte altre di cui omettiamo i particolari per proteggere la riservatezza di Paul, può bastare.
Rimane Carlo, il prete italiano, che nel frattempo cede alle nostre avance e ci invita a cena in un ristorante vicino a casa sua. Il mio «fidanzato» arriva alle 9; Carlo indossa scarpe sportive, pantaloni beige, una camicia turchese e a tracolla tiene una borsa nera. Il ristorante è tra piazza Navona e il Pantheon. Carlo saluta tutti, conosce tutti, dal proprietario ai camerieri, questi ultimi tutti gay e bellocci. «Adesso hai capito perché vengo qua?» dice ammiccando. «Questo è un locale gay friendly ». Ordina una pizza e una birra. Al tavolo accanto ci sono due uomini, lui dice che uno è un prete e l’altro il suo «fidanzato». E fa una battuta: «Attento, perché sei in mezzo a un sandwich tra due preti». A sentir lui, quello è un ristorante frequentato da tanti prelati gay. Carlo racconta di avere scoperto le vere tendenze sessuali tre anni fa, entrando nel giro romano e frequentando altri sacerdoti. Giura che almeno il 98 per cento dei preti che conosce è omosessuale e che gli altri reprimono la loro sessualità: i più frustrati sarebbero quelli che esibiscono tonache ornate di pizzi e merletti. Dice che nella Chiesa di oggi c’è una parte «intransigente» che si sforza di non guardare la realtà, e un’altra più «evangelica» che riconosce e accetta il fenomeno dei preti gay.
Finita la pizza, Carlo porta il mio «fidanzato» nel suo appartamento passando direttamente per il portone della grande struttura ecclesiastica cui appartiene. Prendono l’ascensore, una volta dentro lo fa affacciare dalle finestre per ammirare il panorama. Poi, ancora una volta sotto l’occhio della nostra telecamera nascosta, l’uomo si spoglia, si mette dei pantaloncini corti e si sdraia sul letto. Scopriremo qualche sera dopo che dice messa proprio a poche decine di metri da dove abita.
Rimane solo da scoprire qualcosa di più su «don Luca il missionario », la cui vicenda col passare dei giorni si tinge di mistero. Per una settimana assistiamo alle celebrazioni in lingua italiana, spagnola, portoghese che si tengono alla missione. Ma di lui non c’è nessuna traccia. Chiediamo notizie al sacerdote più vecchio: risponde che Luca non c’è e si allontana quasi indispettito. Entriamo a far parte del gruppo di volontari che collabora nella missione; conosciamo quasi tutti, dai ragazzini fino ai preti brasiliani e sudamericani. Partecipiamo perfino alla riffa domenicale, con un computer come omaggio finale. Niente, don Luca non c’è. Proviamo allora a stanarlo lasciando un biglietto sotto la porta di quella che dovrebbe essere la sua camera: gli scriviamo di richiamarci con urgenza, e come firma scriviamo «il ragazzo dell’altra sera». Ancora nulla. Proviamo infine a uscire allo scoperto con alcuni membri della missione: diciamo loro che siamo stati nella stanza del secondo piano con don Luca e descriviamo tutti gli arredi della camera. Gli interlocutori si chiudono a riccio e dicono che lì non c’è nessun don Luca, nessun prete di origine molisana.
Sono passati circa 20 giorni dalla serata al Testaccio. Chissà. Forse don Luca in realtà non è un vero prete. Eppure ha le chiavi e si muove all’interno della missione e della sua camera con la familiarità di chi ci vive. L’ambiguità del suo ruolo si sovrappone alla doppia realtà di quanto abbiamo scoperto in questo strano «viaggio» nei vizi della capitale: ma il sesto comandamento non recita «Non commettere atti impuri »?